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Monday 22 March 2010

Novembre 2009, 3 incontri per sostenere lo sport come strumento di pace e sviluppo

Dopo aver utilizzato lo sport in Zambia per un cambiamento sociale ed un rinforzamento della società civile ed in kenya come strumento di riconciliazione e peace building in una società divisa tra due delle più grosse etnie; dopo aver approfondito l’argomento con una tesi sul potere dello sport nel processo di riconciliazione in situazione di post conflitto, non mi lascio sfuggire tre tra i più importanti appuntamenti internazionali su “sport for development and peace” (SDP), tutti nel mese di novembre. Il concetto è relativamente nuovo, l’utilizzo dello sport in interventi umanitari e di cooperazione allo sviluppo.

RHEINSBERG
Il primo seminario è a Rheinsberg, a nord di Berlino, dal 2 all’8 novembre, un seminario internazionale tenuto da ICCSPE (International Council of Sport Science and Physical Education) su come utilizzare lo sport in interventi di post-disastro. Sei giorni di training con partecipanti da 22 nazioni dai 5 continenti per approfondire, sia nella teoria che nella pratica, come implementare programmi sportivi psico-sociali nelle prime fasi d’intervento umanitario dopo un disastro causato da fattori naturali o più tristemente da conflitti armati. Gente da tutto il mondo, sia aid workers con esperienza sul campo, sia giovani studenti curiosi di vedere come lo sport possa essere di aiuto in queste situazioni . Le tematiche trattate sono tante ed altrettanti sono i relatori che si susseguono durante le sei giornate, relatori prettamente accademici e relatori direttamente dal campo.

Ian Pickup, della Roehampton University a Londra, tiene una sessione su come insegnare e come imparare in una situazione di crisi, enfatizzando il messaggio che non esiste un approccio unico e vincente all’utilizzo dello sport ma che è d’obbligo il contestualizzare il metodo e capire la situazione prima di intervenire.

Ken Black, della Loughborough University, Leicestershire, UK, spiega l’inclusione sociale e l’attività sportiva rivista per persone con forme di disabilità, la cosiddetta attività fisica adattata. L’inserire questo concetto all’interno di un seminario su interventi post-disastro può suonare strano ma Ken suggerisce che se la società venisse organizzata come se la disabilità fosse solo una diversa abilità, come l’essere mancini, o come lo scrivere da destra a sinistra, allora forse ci sarebbero molte meno discriminazioni e stigmatizzazioni. Lo stesso seminario è stato tenuto in un hotel studiato nel minimo dettaglio per dare ogni confort a persone “diversamente abili”.

Jaleh Saboktakin, una dolcissima ragazza iraniana, ha lavorato durante la fase di emergenza e post emergenza in Iran dopo il terremoto di Bam nel 2003 dove morirono più di 30.000 persone. Ha coordinato il progetto "Sport for Traumatized Children and Youth in Bam", con lo scopo di migliorare il benessere psicosociale dei bambini e giovani colpiti dal disastro attraverso attività sportive. Durante la sua esposizione, lei e gli altri due iraniani presenti sono visivamente toccati dai ricordi, nel ripensare alla distruzione, al dramma di tutti quei morti e alle tante famiglie distrutte. Jaleh pone l’accento su come le attività ricreative e sportive, nonostante le difficoltà logistiche e culturali, abbiano aiutato bambini e giovani a ritrovare il sorriso, a ritornare a sperate per un futuro. Nello stesso tempo anche gli adulti si ritrovarono beneficiari indiretti delle attività avendo più tempo per dedicarsi alla ricostruzione senza dover pensare per un attimo ai figli.

Chiude poi le presentazioni l’unico speaker italiano, Andrea Brunelli, Università Degli Studi di Roma “Foro Italico”, ci conoscevamo già reciprocamente di nome, io sapevo del suo utilizzo delle attività sportive tra i giovani in Abruzzo dopo il terremoto, ed in Tailandia dopo lo tsunami con un’importante organizzazione non governativa specializzata in questo settore “Right to Play”; lui sapeva della mia tesi sull’utilizzo dello sport nel processo di riconciliazione in situazione post-conflitto. Un mondo molto piccolo, soprattutto in Italia, e così i nomi girano in fretta. Un mondo che ha bisogno di ricercatori per sviluppare una best practice, e di operatori per verificare quanto bene possa fare lo sport. Nei prossimi anni è prevedibile uno sviluppo dell’offerta formativa universitaria per figure professionali specifiche.

STRASBURGO
Lasciata Berlino volo in treno a Strasburgo, la stessa sera comincia il seminario sul ruolo delle associazioni sportive nel promuovere la partecipazione attiva dei giovani e il miglioramento dello scambio interculturale. I partecipanti, tutti tra i 18 e i 35 anni, attivi in associazioni e/o progetti sportivi, arrivano da tutta Europa, o meglio da molti dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa, quindi un’area geografica molto più ampia: Azerbaijan, Georgia, Russia, Romania, Estonia, Polonia, Francia, Germania, Portogallo, Norvegia, Paesi Bassi, Turchia, Libano……alcuni tra i paesi presenti, and Italy of course! Il corso è infatti organizzato dal Consiglio d’Europa (Direzione Gioventù e Sport) nel quadro dell’EPAS (Accordo sullo sport).
Lo scopo dell’incontro è duplice: stilare delle raccomandazioni per la Direzione gioventù e sport del Consiglio d’Europa e creare possibili network tra le associazioni presenti. Come risultato dei lavori di gruppo nelle raccomandazioni viene suggerita una collaborazione con il settore del no profit e delle ONG per sviluppare il loro lavoro all’interno di “Youth and sport across Europe”. Per utilizzare lo sport come strumento di successo per un cambiamento sociale è essenziale utilizzare la grande esperienza dei due settori - giovani e sport - in relazione alla partecipazione giovanile e allo scambio interculturale. Contatti e possibili network se ne creano molti, idee, progetti, condivisione di obiettivi. Con Ioana, studentessa master universitario su management sportivo si discute la possibilità di svolgere degli stage in Zambia; conosco David, coordinatore di alcuni progetti di KickFair, organizzazione tedesca con progetti sia in Germania che in alcune realtà africane con partner locali, che usa il calcio come metodo educativo di apprendimento, dove ai giovani viene data l’opportunità di partecipare attivamente nella creazione di un loro ambiente sociologico, con discussioni costuttive post partita. L’idea mi è piaciuta subito e forse nasceranno delle collaborazioni. E così gli altri partecipanti. Mentre racconto di queste esperienze ad alcuni vicini in uno dei miei viaggi in treno, vengo anche a conoscenza del CSI, il Centro Sportivo Italiano, nato già nel 1944, che alla fine propone un’idea simile a livello nazionale con qualche progetto internazionale.

Ma allora cosa c’è di nuovo? C’è l’interesse della comunità internazionale, delle Nazioni Unite, l’interesse delle grandi organizzazioni sportive e sociali, l’interesse di qualche governo e delle università, l’interesse delle imprese profit e no profit a collaborare tra di loro per un crescente discorso di corporate social responsibility e accountability tradotta con responsabilità sociale delle imprese. C’è la consapevolezza che non è sufficiente concentrarsi su aiuti visibili, tangibili, per ottenere un miglioramento duraturo della situazione ma è altrettanto importante lavorare sull’aspetto psicologico e sociale delle persone in situazione di difficoltà e disagio. La partecipazione attiva dei giovani nel cambiamento della società è vista come valore aggiunto e non come impiccio a decisioni dei grandi. Lo sport può dare un enorme contributo sia nel recuperare e mantenere un benessere fisico e mentale, sia nello sviluppare l’apprendimento di capacità extra sportive, sia nel coinvolgere i giovani nei processi decisionali.

MONTECARLO
Tutto questo interesse della comunità internazionale è ben rappresentato anche dal forum annuale tenuto a Montecarlo dall’organizzazione “Peace and Sport” , sotto l’alto patronato di Principe Alberto II di Monaco , la cui missione è promuovere una pace sostenibile attraverso l’educazione dei giovani, usando i valori dello sport. Al forum hanno partecipato oltre 400 persone, governi, organizzazioni internazionali, confederazioni sportive internazionali, il comitato olimpico internazionale ed i nazionali, atleti campioni mondiali di sport e di vita, ONG, università, imprese, la stampa, e osservatori. Nonostante l’evidente ed imbarazzante contrasto tra la ricchezza estrema del posto in cui si è svolto il forum e il concetto di aiutare le zone di post conflitto e/o molto povere – normale chiedersi quanto si sarebbe potuto investire in progetti concreti invece che organizzare questo forum – si sono create delle serie opportunità per uno sviluppo futuro di progetti sportivi con fine sociale, grazie a scambi di idee, ad incontri vis à vis che rendono tutto più facile e grazie a qualche partnership già firmata.
Il 2010 sarà una grande opportunità per attivisti e operatori in “sport for development and peace” , Coppa d’Africa e mondiali in Sudafrica anche se l’attacco alla squadra del Togo dimostra immediatamente l’altra faccia della medaglia.

Un mese ricco di incontri, ricco di nuove conoscenze, con tanti scambi di vedute e nonostante arrivassimo da tutta Europa e da tutto il mondo, parlavamo la stessa lingua, la legge ed i valori dello sport, dello sport per tutti, non dello sport che spinge a vincere a tutti i costi, ma dello sport come strumento di pace, di sviluppo e di cambiamento e coesione sociale.

Ed eccomi qui, con in lontananza il Kafue River, a chiudere l’articolo, per poi andare a rileggermi dopo più di sette anni, con nuova consapevolezza e nuova conoscenza d’Africa e sport, il libro di Kapuscinski “La prima guerra del football, e altre guerre di poveri”. Qui questo grande reporter polacco raccoglie le sue esperienze degli anni ’60 e ’70 tra Ghana ed Congo, Tanganica, Sud Africa degli afrikaner, Algeria, Nigeria, Cile, ed ancora i racconti della guerra tra Siria ed Israele e dell'occupazione turca dell'isola di Cipro. Ma soprattutto descrive l'Honduras ed El Salvador e la famosa "Guerra del Football", il brevissimo conflitto combattuto nel 1969 conosciuto anche come Guerra delle cento ore" utile per ricordare che non è lo sport in sé ad essere buono o cattivo, educativo o diseducativo, ma è il mondo circostante ad esserlo, nel bene e nel male.

Sport come strumento di pace, sviluppo, educazione e salute


500! Sono più di 500 alla campestre conclusiva nel distretto di Kafue in Zambia sotto il programma “Never give up”. Bambini e giovani entusiasti sono arrivati da differenti villaggi ed hanno corso per circa 5 km su terreno sconnesso, giocandosi la vittoria della giornata e la vittoria di tutto il circuito comprendente 5 competizioni. Corrono per divertirsi, per battere il compagno di classe, per condividere emozioni con coetanei provenienti da diverse località, per ricevere quel minimo rinfresco a fine gara, per incontrare nuovi amici, per guadagnare punti al fine di vincere uno dei fantastici premi finali come un’utilissima mountain bike per raggiungere più velocemente la distante scuola al mattino, oppure un comodo materasso od una coperta. Ma c’è dell’altro, durante e dopo la competizione è presente l’unità mobile di VCT (voluntary counselling and testing) che diffonde informazioni sull’AIDS, materiale esplicativo su come prevenirlo e su come vivere “positivamente” in caso di contagio cercando di ridurre la ancora forte stigmatizzazione. Come intrattenimento prima delle premiazioni un gruppo di giovani promettenti organizza delle scenette divertenti a scopo educativo, mostrando le conseguenze negative di certi comportamenti e modi di vivere .
Indubbiamente una grande giornata all’insegna dello sport come strumento per promuovere educazione, sviluppo fisico e mentale, salute, per trasmettere valori di cooperazione, rispetto, tolleranza, disciplina e autostima.
“Never give up” il cui nome non vuole richiamare il motto fascista ma un inno al non cedere, al trovare sempre la forza per poter andare avanti, migliorarsi, ripartire, nello sport, nella corsa così come nella vita, nella scuola e nel quotidiano può essere definito come uno sport based program dove si abbina lo sport all’insegnamento con approccio partecipativo, di "abilità di vita" e "per la vita", cosiddette lifeskills cercando di mantenere un livello di benessere psicologico elevato e sviluppando attitudini positive nell’interazione con gli altri e nel rapporto con il proprio ambiente sociale.
Questo programma prevede la neonata football league con più di 1200 partecipanti, di cui 480 ragazze, divisi in categorie dai pulcini agli under 20 ed anche l’ormai ben noto circuito di corse campestri di cui sopra. Questa grossa differenza di numeri, parzialmente dovuta al fascino ed alla popolarità del calcio, ed al maggior sforzo continuato richiesto dalla corsa mezzofondo, risiede per lo più nelle difficoltà logistiche, o meglio nella scarsità di risorse finanziare per radunare i corridori al punto di partenza e riportarli il più vicino possibile a casa. Alcuni di loro per raggiungere il ritrovo camminano per 7 km circa.
Durante gli allenamenti i coaches hanno l’arduo compito di non limitarsi a mettere un pallone in mezzo al campo per far giocare i bambini ma devono proporsi come modello positivo da seguire, offrendo loro in maniera ludica, le necessario informazioni per una scelta consapevole per il loro futuro. Viene quindi seguito un approccio olistico con diretta partecipazione di bambini e giovani molto spesso al di sotto della soglia di povertà.
Questo è giusto un buon esempio di come l’utilizzo dello sport possa essere d’aiuto per raggiungere obiettivi non sportivi importanti come quelli degli obiettivi di sviluppo del millennio.
Rubando l’idea all’antropologo John MacAloon, biografo di Pierre de Coubertin, lo sport di per sè non è buono o cattivo, è giusto un box vuoto e neutro da riempire con valori, idee, significati, in base al contesto culturale in cui si svolge e alle persone che ne prendono parte. Da qui l’utilizzo dello sport come strumento per un fine, dove il fine non è solo il miglioramento della prestazione sportiva ma è soprattutto un miglioramento “sociale”.
Lo sport viene così usato come uncino, come collante per attrarre i giovani, e non solo, al fine di raggiungere obiettivi non sportivi in ambiti davvero diversificati: dalla gestione e mediazione di conflitti alla maggior conoscenza delle malattie più comuni e pericolose come AIDS, malaria e tubercolosi; dall’aumento della capacità di ripresa dopo un forte trauma (disastri naturali, conflitti, bambini soldato), al tenere lontano gli adolescenti dall’inattività causata dalla forte disoccupazione con alto rischio di cadere in giri sbagliati; dall’apprendimento di life skills (abilità che consentono di trattare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana) e responsabilizzazione dei giovani, alla ricostruzione di relazioni sociali distrutte da un conflitto.
In questo ultimo decennio i valori fondamentali dello sport sono stati riconosciuti dalla Comunità Internazionale come fattori molto importanti per la costruzione di una società civile più forte. Un crescente numero di organizzazioni è intervenuto in zone di conflitto e in paesi meno sviluppati per portare i benefici dello sport.
Si stanno studiando nuove metodologie di monitoraggio e valutazione di progetti di questo tipo, dall’analisi prettamente quantitativa si vuole sostenere una valutazione più qualitativa, per dimostrare ai donors ed agli scettici che si focalizzano più sui problemi grossi ed evidenti come la fame e l’acqua, che lo sport può avere un alto impatto psicologico per curare il trauma subito dalla perdita di persone care o dalla perdita di tutto ciò che si è costruito con i sacrifici di una vita.
Ci sono studi (per esempio C.Colliard, B.Henley, Overcoming Trauma through Sport, 2005) che dimostrano come lo sport possa incrementare e sviluppare la capacità di ripresa, di recupero, di reazione per tornare ad una vita normale, per tornare a sperare. Spesso questo fattore viene sottovalutato e ci si sofferma sulla visibilità degli aiuti, sulla possibilità di quantificare il donato piuttosto che vederne l’utilità concreta. In kenya per esempio, nella Rift Valley, mi era successo di vedere piccole case di fango e lamiera, costruite per gli sfollati fuggiti durante gli scontri tra le due etnie Kaleinjin e Kikuyu dopo le violenze post elettorali all’inizio del 2008. Queste case, o meglio, sistemazioni provvisorie, anche se con un bello stemma del donor, erano vuote perché i supposti inquilini avevano ancora paura dei loro vicini molto probabilmente attori delle barbarie subite. Il tutto era accaduto in meno di dieci giorni, ma per ricostruire le zone colpite serviranno anni e di certo non era sufficiente dare alle vittime un tetto per ripararsi ma era fondamentale intervenire con un ben strutturato supporto psicologico che affiancasse la ricostruzione fisica.
Personalmente ho avuto la fortuna di coordinare ed avviare in alcune zone colpite, l’attività di due Child friendly spaces, aree dedicate ai bambini, con l’ambizioso obiettivo di ricostruire la loro vita, ridare loro il senso di normalità in un ambiente protetto, ridar loro il diritto al gioco, per socializzare imparare e condividere emozioni con altri bambini di diverse etnie.
L’idea dei Child friendly spaces, sostenuta da grosse organizzazioni come Unicef e Safe the Children, è fantastica e può funzionare, la prova è il sorriso dei bambini. Le attività proposte spaziano da quelle creative come pittura, disegno, creazione di oggetti con l’argilla, creazione di poster con fiori secchi, semi e sabbia a quelle di fantasia come la danza, il teatro ed il canto. Altrettanto presenti sono le attività sportive come il calcio, la pallavolo, pallacanestro e giochi tradizionali e le attività comunicative come il raccontare storie, leggere libri e discussioni di gruppo. Ogni attività non è fine a se stessa ma ha l’obiettivo ben preciso di aiutare il bambino nel suo sviluppo psicologico e sociale. Come tutte le cose fatte bene ha bisogno di una seria pianificazione e implementazione, tanti feed-back per rivedere cosa non funziona e tante azioni per riproporre la strategia migliorata; per esempio nel mio caso, dopo un open day di successo il numero di bambini ha iniziato a calare, in quanto i genitori scoperta la “neutralità” del centro e la presenza di bambini di altre etnie hanno avuto preferito mantenere i propri figli a casa.
Per fortuna l’alto numero di personale locale coinvolto nel lavoro psico-sociale ha permesso alcune spedizioni esplicative porta a porta nel tentativo di convincere le famiglie a collaborare.
Sicuramente, anche se i primi risultati si possono vedere abbastanza infretta, il percorso per un cambiamento sociale è molto lungo e difficile
Potrebbe sembrare un compito più arduo qui nell’Africa sub-sahariana rispetto all’Europa, per tutti gli impedimenti culturali e logistici presenti, come la forte carenza di infrastrutture soprattutto nelle zone rurali, per l’elevato tasso di povertà che preclude ogni possibilità di utilizzo dei pochi mezzi di trasporto disponibili e per lo scarso numero di gente qualificata ad insegnare ai bambini il Fair Play nello sport e nella vita. Inoltre, in molte culture di paesi in via di sviluppo i bambini rappresentano ancora forza lavoro, i maschi vanno sono spesso nei campi o a portare il bestiame a pascolare, le giovani ragazze rimangono invece in casa per faccende domestiche e per curare i fratellini più piccoli. Tra le ragazze inoltre è ancora comune il rimanere in cinta ad età davvero premature, ad esempio nel 2009 in Zambia, in una squadra di calcio under 17 hanno lasciato in 3 per gravidanza.
Poi però in Europa, in Italia, gli articoli sui giornali raccontano di partite di calcio di “pulcini” sospese per rissa tra genitori, per l’eccessivo incitamento di un padre che pretendeva più cattiveria, con bambini poi spaventati dall’accaduto. Il che mi fa credere che almeno in questo l’Africa non sia poi così indietro.