Search This Blog

Monday 22 March 2010

Sport come strumento di pace, sviluppo, educazione e salute


500! Sono più di 500 alla campestre conclusiva nel distretto di Kafue in Zambia sotto il programma “Never give up”. Bambini e giovani entusiasti sono arrivati da differenti villaggi ed hanno corso per circa 5 km su terreno sconnesso, giocandosi la vittoria della giornata e la vittoria di tutto il circuito comprendente 5 competizioni. Corrono per divertirsi, per battere il compagno di classe, per condividere emozioni con coetanei provenienti da diverse località, per ricevere quel minimo rinfresco a fine gara, per incontrare nuovi amici, per guadagnare punti al fine di vincere uno dei fantastici premi finali come un’utilissima mountain bike per raggiungere più velocemente la distante scuola al mattino, oppure un comodo materasso od una coperta. Ma c’è dell’altro, durante e dopo la competizione è presente l’unità mobile di VCT (voluntary counselling and testing) che diffonde informazioni sull’AIDS, materiale esplicativo su come prevenirlo e su come vivere “positivamente” in caso di contagio cercando di ridurre la ancora forte stigmatizzazione. Come intrattenimento prima delle premiazioni un gruppo di giovani promettenti organizza delle scenette divertenti a scopo educativo, mostrando le conseguenze negative di certi comportamenti e modi di vivere .
Indubbiamente una grande giornata all’insegna dello sport come strumento per promuovere educazione, sviluppo fisico e mentale, salute, per trasmettere valori di cooperazione, rispetto, tolleranza, disciplina e autostima.
“Never give up” il cui nome non vuole richiamare il motto fascista ma un inno al non cedere, al trovare sempre la forza per poter andare avanti, migliorarsi, ripartire, nello sport, nella corsa così come nella vita, nella scuola e nel quotidiano può essere definito come uno sport based program dove si abbina lo sport all’insegnamento con approccio partecipativo, di "abilità di vita" e "per la vita", cosiddette lifeskills cercando di mantenere un livello di benessere psicologico elevato e sviluppando attitudini positive nell’interazione con gli altri e nel rapporto con il proprio ambiente sociale.
Questo programma prevede la neonata football league con più di 1200 partecipanti, di cui 480 ragazze, divisi in categorie dai pulcini agli under 20 ed anche l’ormai ben noto circuito di corse campestri di cui sopra. Questa grossa differenza di numeri, parzialmente dovuta al fascino ed alla popolarità del calcio, ed al maggior sforzo continuato richiesto dalla corsa mezzofondo, risiede per lo più nelle difficoltà logistiche, o meglio nella scarsità di risorse finanziare per radunare i corridori al punto di partenza e riportarli il più vicino possibile a casa. Alcuni di loro per raggiungere il ritrovo camminano per 7 km circa.
Durante gli allenamenti i coaches hanno l’arduo compito di non limitarsi a mettere un pallone in mezzo al campo per far giocare i bambini ma devono proporsi come modello positivo da seguire, offrendo loro in maniera ludica, le necessario informazioni per una scelta consapevole per il loro futuro. Viene quindi seguito un approccio olistico con diretta partecipazione di bambini e giovani molto spesso al di sotto della soglia di povertà.
Questo è giusto un buon esempio di come l’utilizzo dello sport possa essere d’aiuto per raggiungere obiettivi non sportivi importanti come quelli degli obiettivi di sviluppo del millennio.
Rubando l’idea all’antropologo John MacAloon, biografo di Pierre de Coubertin, lo sport di per sè non è buono o cattivo, è giusto un box vuoto e neutro da riempire con valori, idee, significati, in base al contesto culturale in cui si svolge e alle persone che ne prendono parte. Da qui l’utilizzo dello sport come strumento per un fine, dove il fine non è solo il miglioramento della prestazione sportiva ma è soprattutto un miglioramento “sociale”.
Lo sport viene così usato come uncino, come collante per attrarre i giovani, e non solo, al fine di raggiungere obiettivi non sportivi in ambiti davvero diversificati: dalla gestione e mediazione di conflitti alla maggior conoscenza delle malattie più comuni e pericolose come AIDS, malaria e tubercolosi; dall’aumento della capacità di ripresa dopo un forte trauma (disastri naturali, conflitti, bambini soldato), al tenere lontano gli adolescenti dall’inattività causata dalla forte disoccupazione con alto rischio di cadere in giri sbagliati; dall’apprendimento di life skills (abilità che consentono di trattare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana) e responsabilizzazione dei giovani, alla ricostruzione di relazioni sociali distrutte da un conflitto.
In questo ultimo decennio i valori fondamentali dello sport sono stati riconosciuti dalla Comunità Internazionale come fattori molto importanti per la costruzione di una società civile più forte. Un crescente numero di organizzazioni è intervenuto in zone di conflitto e in paesi meno sviluppati per portare i benefici dello sport.
Si stanno studiando nuove metodologie di monitoraggio e valutazione di progetti di questo tipo, dall’analisi prettamente quantitativa si vuole sostenere una valutazione più qualitativa, per dimostrare ai donors ed agli scettici che si focalizzano più sui problemi grossi ed evidenti come la fame e l’acqua, che lo sport può avere un alto impatto psicologico per curare il trauma subito dalla perdita di persone care o dalla perdita di tutto ciò che si è costruito con i sacrifici di una vita.
Ci sono studi (per esempio C.Colliard, B.Henley, Overcoming Trauma through Sport, 2005) che dimostrano come lo sport possa incrementare e sviluppare la capacità di ripresa, di recupero, di reazione per tornare ad una vita normale, per tornare a sperare. Spesso questo fattore viene sottovalutato e ci si sofferma sulla visibilità degli aiuti, sulla possibilità di quantificare il donato piuttosto che vederne l’utilità concreta. In kenya per esempio, nella Rift Valley, mi era successo di vedere piccole case di fango e lamiera, costruite per gli sfollati fuggiti durante gli scontri tra le due etnie Kaleinjin e Kikuyu dopo le violenze post elettorali all’inizio del 2008. Queste case, o meglio, sistemazioni provvisorie, anche se con un bello stemma del donor, erano vuote perché i supposti inquilini avevano ancora paura dei loro vicini molto probabilmente attori delle barbarie subite. Il tutto era accaduto in meno di dieci giorni, ma per ricostruire le zone colpite serviranno anni e di certo non era sufficiente dare alle vittime un tetto per ripararsi ma era fondamentale intervenire con un ben strutturato supporto psicologico che affiancasse la ricostruzione fisica.
Personalmente ho avuto la fortuna di coordinare ed avviare in alcune zone colpite, l’attività di due Child friendly spaces, aree dedicate ai bambini, con l’ambizioso obiettivo di ricostruire la loro vita, ridare loro il senso di normalità in un ambiente protetto, ridar loro il diritto al gioco, per socializzare imparare e condividere emozioni con altri bambini di diverse etnie.
L’idea dei Child friendly spaces, sostenuta da grosse organizzazioni come Unicef e Safe the Children, è fantastica e può funzionare, la prova è il sorriso dei bambini. Le attività proposte spaziano da quelle creative come pittura, disegno, creazione di oggetti con l’argilla, creazione di poster con fiori secchi, semi e sabbia a quelle di fantasia come la danza, il teatro ed il canto. Altrettanto presenti sono le attività sportive come il calcio, la pallavolo, pallacanestro e giochi tradizionali e le attività comunicative come il raccontare storie, leggere libri e discussioni di gruppo. Ogni attività non è fine a se stessa ma ha l’obiettivo ben preciso di aiutare il bambino nel suo sviluppo psicologico e sociale. Come tutte le cose fatte bene ha bisogno di una seria pianificazione e implementazione, tanti feed-back per rivedere cosa non funziona e tante azioni per riproporre la strategia migliorata; per esempio nel mio caso, dopo un open day di successo il numero di bambini ha iniziato a calare, in quanto i genitori scoperta la “neutralità” del centro e la presenza di bambini di altre etnie hanno avuto preferito mantenere i propri figli a casa.
Per fortuna l’alto numero di personale locale coinvolto nel lavoro psico-sociale ha permesso alcune spedizioni esplicative porta a porta nel tentativo di convincere le famiglie a collaborare.
Sicuramente, anche se i primi risultati si possono vedere abbastanza infretta, il percorso per un cambiamento sociale è molto lungo e difficile
Potrebbe sembrare un compito più arduo qui nell’Africa sub-sahariana rispetto all’Europa, per tutti gli impedimenti culturali e logistici presenti, come la forte carenza di infrastrutture soprattutto nelle zone rurali, per l’elevato tasso di povertà che preclude ogni possibilità di utilizzo dei pochi mezzi di trasporto disponibili e per lo scarso numero di gente qualificata ad insegnare ai bambini il Fair Play nello sport e nella vita. Inoltre, in molte culture di paesi in via di sviluppo i bambini rappresentano ancora forza lavoro, i maschi vanno sono spesso nei campi o a portare il bestiame a pascolare, le giovani ragazze rimangono invece in casa per faccende domestiche e per curare i fratellini più piccoli. Tra le ragazze inoltre è ancora comune il rimanere in cinta ad età davvero premature, ad esempio nel 2009 in Zambia, in una squadra di calcio under 17 hanno lasciato in 3 per gravidanza.
Poi però in Europa, in Italia, gli articoli sui giornali raccontano di partite di calcio di “pulcini” sospese per rissa tra genitori, per l’eccessivo incitamento di un padre che pretendeva più cattiveria, con bambini poi spaventati dall’accaduto. Il che mi fa credere che almeno in questo l’Africa non sia poi così indietro.

No comments:

Post a Comment